C’è ancora qualche angolo di mondo in cui è possibile rivivere, in tutta la loro bellezza, i riti arcaici di una religione rurale ormai dissacrata (c’è chi dice sia bene) dalle liturgie laiche dell’industrializzazione o spontaneamente decaduta per vecchiezza o per abbandono. A pochi chilometri da Roma, sulla via Tiburtina, oltre l’oraziana Mandela, presso l’ovidiana Carseoli è, declinante sull’altipiano del Cavaliere, il borgo selvaggio che mi diede i natali e che, naturalmente, mi rifiutò profeta: Vivaro Romano. Ivi io mi rifugio, senza rancori, quando il tarlo del pensiero più rode e più stordisce, per assaporare, nell’ebbrezza dell’ossigeno e del vino, la felicità che è dell’ebbro quando non si conosce più. Ivi quest’anno, per il mecenatismo di Angelo, stirpe di cardinali, abbiamo ricelebrato il rito della “trita” del farro, con tutto lo sfarzo dei vecchi tempi.
È il farro un cereale che matura in agosto. Sminuzzato nelle caratteristiche mole familiari dà il farricello, la minestra del povero nei tempi della miseria, e ora specialissima specialità culinaria; o, macinato come il grano, una farina scura destinata alla preparazione delle “petacce”, sorta di lasagne senza uova che, per la poca compattezza, si spezzano e si consumano col cucchiaio in abbondante sugo di aglio e pomodoro. Al farro, per le nostre “orge” invernali nelle fredde notti di tramontana e di neve, la magnanimità del sullodato Angelo ha riservato un angolino di quel di San Benedetto: un fazzoletto di terra, dodici coppe di raccolto, quanto basta per una cinquantina di abbuffate. La giornata della “trita” è fissata per il diciassette di agosto.
Primissime luci dell’alba. Ultime nebbie nelle con valli. Velino aureolato di rosa. I covoni ancor umidi di rugiada vengono trasportati al Colle di Santa Maria, sul prato di Giovanni fungente da aia ove i cavalli di Antonio, già apparigliati, attendono per la “trita”. I covoni vengono disposti a raggiera dalla competenza di Remo, Romolo, Romeo, i tre fratelli sodi come le zolle, generosi come la madre terra. Girolamo, minuto il corpo, minuto il volto, minutissimi gli occhi già splendenti dei vapori del vino mattutino, afferra le briglie: “Alla paglia!”. Scocca la frusta e i cavalli iniziano il loro carosello. Le spighe si distaccano dallo stelo crepitando sotto gli zoccoli. “Alla paglia!”. I forconi riuniscono le paglie disperse. “Alla paglia!”, e i primi canti emergono da gole piene, seppur non ancora del tutto schiarite. (Le nebbie sono scomparse, il sole è esploso, la torre antica del borgo si staglia nel cielo della Lacciara, come se vi fosse ritagliata). “Alla paglia!”. Ancora pochi giri e i cavalli, liberati dalle briglie, si lanceranno alla conquista della fresca erba del prato. Noi attende, in attesa del vento (si alza alle 11, decreta Giovanni) la prima rituale colazione sotto i salici del torrente: fagioli e cotiche, sgombri, olive, salsicce nostrane, pecorino, salame e prosciutto, pane casereccio e, naturalmente, tanto vino, rinfrescandosi alla corrente, trasparente come l’aria, spremuta di natura.


La compagnia si arricchisce di Bertone, “Orfeo” delle nostre valli, la cui anima continuerà a vagare per i campi anche dopo morte; figura asciutta e solenne che, come i bouquinistes franciani del lungosenna, la pioggia, il sole, il vento han così lavorato da farlo apparire come la statua di una cattedrale. Ora, davvero, si canta. E i canti sono anch’essi rituali, vecchi di cento anni. È d’obbligo L’Adelina, rievocante i malinconici e drammatici giorni dell’emigrazione. Una commozione profonda pervade gli animi già esaltati da Bacco. “L’Adelina faceva l’amore con Alfredo e lo stringeva al cor – e di mestiere faceva lo pittore – disse in America me ne voglio andà”.E se ne andò lasciandola incinta. “Doppo un anno meno tre giorni – una letterina a casa gli arrivò – l’aveano scritta i loro i suoi compagni – dicendo Alfredo di te se ne scordò”. Ad Adelina non resta che partire, con una pistola nascosta in seno. “Allo sbarco di Neve Yorke – lo vidde Alfredo coi compagni a passeggia’ ”. Ma Alfredo la rifiuta e la schernisce presentandole la sua nuova Gina. Scoppia il dramma: “Adelina tutta arrabbiata – la rivoltella dal petto si levò – sparò tre colpi e uccise il traditore – sparò tre colpi e a terra lo lasciò”. E nella gioia della vendetta “prese a guitarra e se messe a sona’ – mentre la Gina tutta scontenta – se ne va in camera a piange e a sospira’”. Il dramma è compiuto. Non resta che la morale. “Giovinotti che amate le regazze – badate bene di non le tradi’ – badate bene di non le tradire – questa è la storia di Alfredo e di Adelin”.
Sono le undici e il vento, puntuale, si è levato. Pale in mano comincia il vaglio. Reste e pula volano lontano, e sul telone sono ormai solo i grani di farro misti a puro sterco di cavallo. Si riempiono le coppe: dodici, come gli apostoli: segno di benedizione. Ma i riti non sono che all’inizio. Essi dureranno fino a notte inoltrata. Appesa agli spuntoni del pioppo grande di Pontone è una pecora che ha ancora negli occhi spenti i vasti panorami che godeva dalla Crocetta ‘e Gregoriu ove poche ore prima pascolava. Le sue braciole, arrostite su numerose graticole, annaffiate abbondantemente di vino, costituiranno l’interminabile pasto fino al tramonto. Nel contempo ancora canti e canti, lazzi e lazzi, mimi e mimi, specialista Peppe ‘egliu Ricemenne (dell’uomo ricco, arricchitosi nel paese dove l’Adelina visse il suo dramma). Ma non vogliamo godere da soli. “Recordemoce degliu Sante! Evvive San Gerarde! Evvive!”. È l’intercalare di una processione ciociara che Peppe ricorda dall’epoca della sua naia, che viene mimata, con intrascrivibile effetto, da tutta la compagnia.
È ormai notte. Risaliamo al paese come uno stuolo di satiri senza baccanti. Sulla piazza arcanamente animata (è venuta a mancare la luce) attendono pazienti, e una volta tanto divertite, le nostre donne.

Giulio Sforza

  • In Il giornale d’Italia, 10 ottobre 1972; in Studi Variazioni Divagazioni, Roma, Bulzoni, 1986